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Inadempimento contributivo del datore di lavoro e tutela della posizione assicurativa del lavoratore
Giovanni Cirillo
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha avuto occasione di svolgere utili chiarimenti in ordine allo spinoso tema concernente gli strumenti che l’ordinamento pone a disposizione del lavoratore, per la tutela della propria posizione assicurativa, nell’ipotesi di mancato versamento di contributi da parte del datore di lavoro[1].
Nel caso di specie, in particolare, una lavoratrice aveva agito in giudizio nei confronti dell’INPS, chiedendone la condanna alla regolarizzazione della propria posizione assicurativa, mediante accredito dei contributi omessi dalla datrice di lavoro. Vistasi rigettare la domanda dal giudice di prime cure, la lavoratrice aveva interposto gravame innanzi alla Corte di Appello di Genova, la quale aveva accolto la domanda di parte ricorrente, dichiarando al contempo inammissibile – per ragioni legate a peculiari sviluppi della vicenda processuale in questione – la chiamata in causa dell’erede della datrice di lavoro spiegata dall’INPS. Avverso tale decisione l’Istituto aveva proposto ricorso per cassazione, dolendosi di un’erronea applicazione dell’art. 2116 c.c., su cui l’impugnata sentenza risultava incentrata, posto che alla base del giudizio non vi era una richiesta di prestazione bensì un’omissione contributiva.
Ebbene, l’iter motivazionale della pronuncia resa dalla Suprema Corte pare svilupparsi essenzialmente lungo due linee direttrici.
Da un canto, infatti, l’annotata ordinanza si è occupata di enucleare i pilastri portanti della decisione della Corte ligure, ravvisandoli, per un verso, nell’idea che dal principio di automaticità delle prestazioni ex art. 2116 c.c. discenda in capo all’INPS la qualità di “soggetto garante della regolarità della posizione contributiva” del lavoratore e, per altro verso, nel richiamo a due precedenti di legittimità – precisamente, Cass. 7459/2002[2] e 5767/2002[3] –, nei quali si era riconosciuta la possibilità per il lavoratore di agire direttamente nei confronti dell’INPS.
Parallelamente, nel ribadire la configurabilità in capo al lavoratore di un vero e proprio diritto soggettivo all’integrità della posizione assicurativa, “costituente un bene suscettibile di lesione e di tutela giuridica nei confronti del datore di lavoro che lo abbia pregiudicato”[4], la pronuncia in commento si è premurata di ricostruire l’articolato strumentario attraverso cui quest’ultima protezione è suscettiva di esprimersi.
In tale solco si colloca, in primis, lo stesso principio di automaticità delle prestazioni, previsto innanzitutto dall’art. 2116, co. 1, c.c., in base al quale, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali, le prestazioni sono dovute al prestatore anche quando il datore di lavoro non abbia versato regolarmente i contributi dovuti agli enti previdenziali e assistenziali. Tale principio – che mira a garantire l’effettività del diritto del lavoratore impedendo le conseguenze negative dell’inadempimento contributivo del datore sulla maturazione del diritto e sulla misura della prestazione – trova attuazione, di regola, soltanto in modo parziale, ossia limitatamente ai contributi non ancora prescritti[5].
Sempre ove la contribuzione non risulti prescritta, inoltre, il lavoratore ha a disposizione anche un’azione di condanna al relativo pagamento nei confronti del datore di lavoro, con la necessità di chiamata in causa dell’INPS, quale unico legittimato attivo nell’obbligazione contributiva. Viceversa, proprio in ragione della peculiare struttura del rapporto contributivo, nel quale la titolarità della posizione passiva compete al datore di lavoro, deve escludersi che il lavoratore possa chiedere di sostituirsi ad esso nel pagamento dei contributi[6].
Diversamente, in caso di intervenuta prescrizione del credito contributivo, opera il principio di irricevibilità dei contributi prescritti, comportante l’impossibilità per l’ente previdenziale di accettarne il versamento e l’eventuale rimborso d’ufficio di quanto eventualmente versato. In siffatta ipotesi, l’ordinamento appresta a tutela del lavoratore due diversi rimedi.
L’uno è dato dall’azione di risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro prevista dall’art. 2116, co. 2, c.c., la cui esperibilità presuppone il realizzarsi dei requisiti per l’accesso alla prestazione previdenziale, momento nel quale diviene attuale il pregiudizio consistente nella perdita totale o parziale – con la percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante – della stessa.
L’altro rimedio, previsto invece dall’art. 13 l. 1138/1962, è rappresentato dalla costituzione di una rendita vitalizia reversibile di importo pari a quello del trattamento perduto a cagione dell’omissione contributiva, dietro versamento della corrispondente riserva matematica. La facoltà di chiedere all’INPS l’attivazione di tale strumento spetta innanzitutto al datore di lavoro, con la possibilità per il lavoratore di sostituirsi al medesimo ove non sia possibile ottenere da esso la costituzione della rendita, salvo il diritto al risarcimento del danno nei suoi confronti[7].
A questo punto, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire come quelli da ultimo indicati siano gli strumenti azionabili dal lavoratore anche laddove la prescrizione sia maturata allorché l’INPS, pur se messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del relativo termine, non si sia attivato per la riscossione nei confronti dell’obbligato, dovendosi viceversa escludere la possibilità per il prestatore di agire nei confronti dell’INPS per chiederne la condanna alla regolarizzazione della propria posizione assicurativa, come invece avvenuto nella vicenda esaminata.
Svolte tali precisazioni, la Cassazione è passata a confutare la pertinenza rispetto al caso di specie del richiamo, operato dalla sentenza impugnata, ai due precedenti sopra menzionati. Se questi, infatti, avevano riconosciuto al lavoratore l’anzidetta azione di condanna direttamente contro l’INPS, è pur vero che tanto era avvenuto nel contesto di fattispecie connotate da specifiche peculiarità, non ravvisabili invece nell’ipotesi in questione.
Nel primo caso, infatti, la conclusione in parola risultava giustificata dalla ricorrenza non solo della prescrizione dei contributi a seguito dell’inerzia dell’Istituto nonostante la tempestiva conoscenza dell’inadempienza, ma anche – diversamente dal caso di specie – dell’impossibilità per l’assicurato di fare ricorso ai suindicati rimedi.
Nel secondo caso, poi, la decisione si poneva in stretta connessione con la circostanza per cui il pregiudizio alla posizione assicurativa del lavoratore era stato determinato, oltre che dall’inadempienza datoriale, pure dal diniego opposto dall’Istituto all’operatività della ricongiunzione rispetto ai periodi non coperti[8].
Nella fattispecie in esame, non ricorrendo siffatti presupposti, i richiami a tali precedenti sono risultati inconferenti e le relative soluzioni inapplicabili, sicché la Suprema Corte ha riaffermato il principio per cui la tutela del diritto all’integrità della posizione assicurativa del lavoratore, in caso di mancato versamento dei contributi dovuti dal datore di lavoro ma ormai prescritti, può esprimersi nei rimedi della costituzione di rendita vitalizia e dell’azione risarcitoria avverso il datore di lavoro, ma non anche in un’azione di condanna alla regolarizzazione della posizione contributiva direttamente nei confronti dell’INPS. Dal che è conseguita la decisione della Corte di cassare la sentenza impugnata e, pronunciando nel merito, di rigettare l’originaria domanda proposta dalla lavoratrice contro l’Istituto
[1] In argomento v., per un primo inquadramento e per ulteriori riferimenti bibliografici, Canavesi, in AA.VV., Diritto della sicurezza sociale, Milano, 2021, 105 ss.; Persiani, D’Onghia, Diritto della sicurezza sociale, Torino, 2020, 32 ss., 74 ss., 185 s.
[2] In Dir. giust., 2002, 28, 34, con nota di Assi, Principio di correttezza e lesione del credito del lavoratore assicurato.
[3] In Giust. civ., 2003, I, 167.
[4] Sul punto – su cui cfr. la puntuale ricostruzione di Capurso, Il diritto del lavoratore alla integrità contributiva, in Inf. prev., 2007, 549 ss. – la Suprema Corte ha espressamente evocato le previsioni di cui agli artt. 39 l. 153/1969 e 4 d.l. 352/1978 (conv. in l. 467/1978) e richiamato taluni propri precedenti, segnatamente Cass. 3661/2019, in Mass. Giust. civ., 2019; Cass. 379/1989, in Inf. prev., 1989, 656; Cass. 9850/2002, in Mass. Giust. civ., 2002.
[5] Cfr., per tutti, Casale, L’automaticità delle prestazioni previdenziali. Tutele, responsabilità e limiti, Bologna, 2017, 145 ss.
[6] Al riguardo la pronuncia ha richiamato Cass. 19398/2014, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 791 ss., con nota di Bellè, Tutela in forma specifica della posizione contributiva tra litisconsorzio e automaticità degli accrediti; Cass. 8956/2020, in Dir. giust., 2020, 95, 11, con nota di Tonetti, Il litisconsorte INPS; Cass. 3491/2014, in Guida lav., 2014, 31, con nota di Santoro, I lavoratori non possono agire contro l’INPS per il recupero dei contributi. Cfr. altresì Capurso, La condanna alla regolarizzazione contributiva o delle imprevedibili virtù del litisconsorzio necessario, in Riv. dir. sic. soc., 2020, 858 ss.
[7] Relativamente a tali rimedi l’ordinanza in commento ha fatto rinvio a Cass. 3790/1988, in Mass. Giust. civ., 1988; Cass. 27660/2018, in Mass. Giust. civ., 2018; Cass. 6569/2010, in Inf. prev., 2010, 164 ss.; Cass., n. 23584/2004, in Mass. Giust. civ., 2004.
[8] In proposito la Corte si è richiamata alla ricostruzione compiuta da Cass. 10477/2019, in De Jure, la quale ha ricollegato i principi affermati dal precedente in questione, nonché da Cass. 6772/2002, in Foro it., 2002, 2354, al decisum di Corte Cost. 374/1997, in Riv. giur. lav., II, 390 ss., con nota di Boer, Ricongiunzione dei periodi assicurativi e automaticità delle prestazioni nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Civ., Sez. Lav., 01 Febbraio 2021, n.2164)
stralcio a cura di Giovanni Cirillo
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